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Sfide e successi dell’Unione Europea – Intervista a Vincenzo Amendola

Evolvere verso un nuovo modello economico, accelerando il progresso sostenibile, significa rivoluzione il modo di agire e fare business. Esistono però due rivoluzioni- digitale e green-  che devono necessariamente essere interconnesse per procedere in questa direzione.

In occasione di ImagiNATION, serie di eventi che NATIVA organizza per immaginare collettivamente un sistema Paese sostenibile verso cui tendere, abbiamo intervistato Vincenzo Amendola, ex Ministro per gli Affari europei per parlare di Europa e futuro.

Ciao Vincenzo! Partiamo dalla tua esperienza personale: quanto hai iniziato ad appassionarti al tema “Europa” diventando poi Ministro per gli Affari europei?

Quando ero ragazzo, specialmente al liceo, l’Europa un po’ mi annoiava e la mia prospettiva di sinistra mi portava a concentrarmi solo sulle questioni globali: erano infatti gli anni della pace in Medio Oriente e dell’emancipazione dell’Africa da un periodo disastroso. Il mondo si era aperto e ci sentivamo tutti più vicini, era qualcosa di affascinante. L’ Europa faceva parte di questo grande scenario, ma quando si parlava di trattati, TFU e articoli, sembrava sempre in secondo piano.
Oggi ho un rapporto conflittuale con l’Europa: mi fa arrabbiare, ma le voglio anche bene, perché rappresenta il nostro modo di stare nel mondo. Negli ultimi anni, l’Europa però si è spesso chiusa secondo una politica di austerity che non è solo una dottrina economica, ma anche un modo per bloccare l’immigrazione e il commercio. Questa è l’Europa che non mi piace. L’Europa deve infatti essere protagonista e portare pace nel mondo.
Ho conosciuto l’Europa durante il mio percorso e all’inizio mi sembrava qualcosa di lontano. Ora dobbiamo riportarla, se possibile, nel mondo reale e quello che abbiamo fatto negli ultimi anni è una storia di successo.

Qual è la tua valutazione sulla gestione degli ultimi 5 anni dell’Unione europea?

Sono felice di aver partecipato a due dei negoziati più importanti degli ultimi due anni. Prima della pandemia, nel dicembre 2019, abbiamo raggiunto un accordo sul Green Deal e dichiarato l’obiettivo di neutralità climatica per il 2050. Nonostante non ci fossero disastri imminenti, volevamo essere i primi a dare seguito agli accordi di Parigi. In quell’occasione, durante un Consiglio europeo, si è deciso che il Green Deal sarebbe stato la nostra traiettoria.
Poi è arrivato il COVID-19, e ne siamo usciti con il programma Next Generation EU: per la prima volta l’Europa ha mostrato una visione di solidarietà per affrontare la crisi tutti insieme. Due elementi fondamentali di questo accordo sono due: l’essere una comunità e non lasciare indietro nessuno, e il fatto di destinare una parte dei fondi al Green Deal e una parte al digitale, le due “sorelle”. Il capitalismo digitale sta infatti rivoluzionando il lavoro, l’impresa e il meccanismo globale con una forza e capacità senza precedenti.
Il Next Generation EU rappresentava un modo per dire “abbiamo le risorse, lanciamo il Next Generation, ma dobbiamo diventare leader mondiali dell’economia sostenibile”. Questo accordo è stato positivo perché ha affermato che, sebbene solo il 9% delle emissioni globali provenisse dall’Europa, volevamo agire per il nostro futuro, investendo su noi stessi, non essendo un’alleanza di buoni sentimenti, ma un’alleanza per il futuro.
Poi è arrivato un secondo negoziato, il pacchetto Fit For 55, il braccio esecutivo del Green Deal, che riguarda trasporti, energia, ambiente e agricoltura. Questo negoziato, eccetto per la trattativa sulla tassazione del settore energetico, è stato completamente approvato. La mia frustrazione è che l’Europa del Green Deal e del Next Generation EU è un’Europa che guarda al futuro, nonostante le difficoltà di coinvolgere tutti. Deve recuperare competitività e diventare leader in manifattura, innovazione, ricerca, capacità tecniche e salvezza del pianeta, tenendo d’occhio anche la “sorella” Africa.
Questa spinta, nata soprattutto dalle crisi, oggi sembra una catastrofe, come se poche persone a Bruxelles avessero deciso di metterci in difficoltà, costringendoci ad apportare dei cambiamenti senza che i politici italiani abbiano letto queste direttive. Dopo il governo Draghi, con questo governo che ha approvato tutte le direttive, l’obiettivo doveva essere andare lì e dire “questo è il nostro futuro”. Come abbiamo fatto con il Next Generation EU, avremmo dovuto creare fondi comuni, spingere sulle risorse necessarie per questo grande successo, non solo per noi, ma per dare un segnale che qualcosa si stava muovendo.
Recentemente sono stato in Cina, con altri, a studiare perché anche lì il Green Deal è in atto. In un continente come la Cina, che deve ancora decarbonizzare pesantemente, si pianifica già l’elettrico, mentre noi siamo qui impauriti a discutere e a domandarci “Come cambio la Direttiva?”, il mondo va avanti e questa paura mi infastidisce.

Guardiamo al futuro: quali sono i timori e le grandi aspirazioni che tu immagini l’Europa potrebbe cavalcare? Inseriamo anche la questione della guerra, anzi delle guerre.

Esistono due rivoluzioni: quella digitale, in cui abbiamo fatto progressi significativi con direttive e regolamenti, come l’ultimo sull’intelligenza artificiale, e quella economica. Tuttavia, non stiamo ancora producendo un vero capitalismo digitale perché non spingiamo abbastanza su ciò che è necessario. La Commissione europea ha infatti indicato che dovremmo investire 300 miliardi di euro all’anno per queste due rivoluzioni e questo significa riconvertire la nostra economia e darle una spinta.
Il mio auspicio è che per queste due rivoluzioni si creino fondi e beni comuni europei, non un semplice bancomat, ma un vero patrimonio condiviso. Se fossi nel negoziato, non urlerei per paura o voterei contro, ma voterei per fare le cose insieme.
Riguardo alla guerra, vorrei un’Europa capace di intervenire nelle crisi, come quella di Gaza. L’Europa mostra spesso i muscoli con la retorica, ad esempio difendendo giustamente il popolo ucraino, ma poi si rivolge a cinesi e americani per cercare soluzioni ai conflitti. L’Europa dell’austerity degli ultimi dieci anni, chiusa in sé stessa durante il massacro siriano e l’emergenza migratoria, non è l’Europa che desidero. Siamo nati per garantire la pace tra di noi, e ci siamo riusciti per 80 anni, ma oggi sembriamo non riuscirci più.

 

Ho un rapporto conflittuale con l’Europa: mi fa arrabbiare, ma rappresenta il nostro modo di stare nel mondo. Negli ultimi anni si è spesso chiusa secondo una politica di austerity che è anche un modo per bloccare l’immigrazione e il commercio. L’Europa deve infatti essere protagonista e portare pace nel mondo.
Poi è arrivato il COVID-19 e ne siamo usciti con il programma Next Generation EU: per la prima volta l'Europa ha mostrato una visione di solidarietà per affrontare la crisi. Due elementi fondamentali dell'accordo accordo sono: l’essere una comunità e il fatto di destinare una parte dei fondi al Green Deal e una parte al digitale, le due "sorelle".
Il capitalismo digitale sta infatti rivoluzionando il lavoro, l'impresa e il meccanismo globale con una forza e capacità senza precedenti. Il mio auspicio è che per queste due rivoluzioni si creino fondi e beni comuni europei, non un semplice bancomat, ma un vero patrimonio condiviso.
Riguardo alla guerra, vorrei un’Europa capace di intervenire nelle crisi, come quella di Gaza.L’Europa dell’austerity degli ultimi dieci anni, chiusa in sé stessa durante il massacro siriano e l’emergenza migratoria, non è l’Europa che desidero. Siamo nati per garantire la pace tra di noi.