Ciao Andrea! Partiamo dalla tua esperienza personale: qual è la scintilla che si è innescata in te e che oggi ti porta qui a parlare di futuro?
Ciò che mi porta a parlare di futuro è un aneddoto che mi riporta alle scuole medie, in particolare una ricerca su Martin Luther King e il Mahatma Gandhi sulla non violenza, quindi sulla connessione tra gli esseri umani. Quello è stato sicuramente il primo momento di rivoluzione nella mia vita che mi ha fatto capire quanto l’essere umano abbia una grande potenza, distruttiva da una parte e costruttiva dall’altra. L’ altro momento, forse ancora più forte in quanto abbastanza recente, è stato sbattere la testa contro la migrazione climatica, che è un tema di cui oggi si parla pochissimo, ma che è prioritario per noi e per tutto il mondo. Questo tema è diventato prioritario per me durante gli anni della cosiddetta “fortezza Europa”, quando ho incontrato Mohammed. In quegli anni, i ministri discutevano sulla chiusura dei porti mentre un flusso massiccio di migranti, principalmente climatici, arrivava sulle coste europee. Da quel momento, ho sentito l’impossibilità di rimanere in silenzio.
Secondo la tua opinione, ha portato più cambiamenti radicali nella società la violenza o la non violenza? Come i movimenti attivisti stanno tramandando questa legacy e come si fa a combattere la lotta al cambiamento climatico con la non violenza?
La lotta al cambiamento climatico la si fa come hanno fatto e fanno i movimenti per il clima e come ci dice l’Agenda 2030: con l’ascolto, la cooperazione e il dialogo. La violenza è infatti distruttiva in qualsiasi contesto: lo vediamo nel contesto umanitario, lo vediamo nel contesto sociale e lo vediamo in contesti ancora più piccoli, come la scuola in cui si vieta di celebrare il Ramadan, e lo vediamo anche nella risposta che si dà agli atti di protesta degli attivisti. Riflettevo su un aspetto che vorrei condividere con tutti per comprendere come la violenza sia utilizzata e distorta contro i movimenti climatici. La sproporzione nella risposta violenta, sia fisica che mediatica, verso gli attivisti e le attiviste, spesso soggetti a controlli e violazioni da parte delle forze dell’ordine, è evidente. L’ eco mediatica rabbiosa contro di loro è spesso più forte dell’eco delle loro proteste, come il blocco della stazione di Bologna Centrale in solidarietà con Rafah, evento che è stato in gran parte ignorato. Ignorare volontariamente situazioni come questa è anch’esso forma di violenza, perché si rifiuta di affrontare un problema reale, negando voce a chi interrompe la normalità per attirare l’attenzione su ingiustizie. I movimenti ambientalisti, come Extinction Rebellion, scelgono la via della non violenza anche nelle loro proteste più eclatanti, ma attraverso di esse gridano all’istituzione: “Siamo qui, ascoltateci”.
Questi movimenti sono divisivi: sei istintivamente d’accordo o non d’accordo (che è l’opposto dell’indifferenza). Come facciamo a stimolare l’opposto dell’indifferenza, ovvero il fuoco, la rabbia, l’azione?
Innanzitutto, è essenziale educare le persone sulle molteplici complessità del mondo. Senza comprendere la complessità del nostro pianeta, il suo equilibrio delicato e il fatto che le politiche climatiche sono anche frutto della non violenza e del dialogo che avviene in sede di negoziazione sul clima, non possiamo progredire. Pertanto, l’educazione è il primo passo fondamentale. Poi c’è l’azione, un concetto che richiama alla mente gli attivisti, coloro che si mobilitano. Oggi, l’azione deve ispirarsi all’attivismo di molte popolazioni latinoamericane e italiane. Un esempio tangibile è quello della Basilicata, dove cittadine e cittadini si battono con determinazione contro l’inquinamento e lo sfruttamento eccessivo della loro terra, incarnando movimenti attivisti noti come sentinelle civiche. Ma tutti noi siamo in fieri sentinelle civiche, ovvero vigilanti del pianeta, dei diritti umani e della natura.
Perché la narrativa attuale non riesce a coinvolgere tutti? La comunicazione sul cambiamento climatico ha attraversato diverse fasi e macro-trend: ha iniziato con un linguaggio scientifico e dettagliato che spesso allontanava le persone comuni. Nel mio precedente lavoro, si diceva sempre: “Se non riesci a spiegarlo in modo semplice, vuol dire che non sai dirlo”. Quindi, di fronte a un mare di dati, le persone erano spesso spaventate. Nel tempo, la comunicazione sulla crisi climatica è evoluta verso una comunicazione basata sull’impatto visivo: l’orso polare denutrito su un ghiacciaio sciolto, un’immagine che è stata sfruttata fino alla nausea, perdendo il suo significato originale e allontanando ulteriormente le persone dall’argomento.
Oggi abbiamo bisogno di ristabilire un legame con il mondo non umano, una connessione che abbiamo brevemente sperimentato durante il periodo del Covid: a Venezia, per esempio, l’acqua pulita e l’assenza di smog hanno suscitato meraviglia. Questo è il tipo di connessione che abbiamo smarrito e che dobbiamo recuperare. Ripristinare il legame con l’umanità e il mondo non umano è cruciale per ripristinare l’equilibrio che abbiamo spezzato, un equilibrio che stiamo lottando per reintrodurre in Europa, promuovendo i diritti della natura ad esempio riconoscendo che la natura ha diritti paragonabili a quelli umani, come già avviene in parti del mondo come l’America Latina e l’Albania, dove la natura può essere difesa in tribunale. Dobbiamo tornare a questo approccio, riconoscendo che la natura può e deve essere protetta, perché noi siamo solo ospiti sulla Terra.
Quale legacy vuoi lasciare come divulgatore per stimolare tutte le persone che vogliono fare qualcosa, ma che non sanno da dove partire?
Connetterci tra di noi, tornando a una dimensione più umana. Il business e la corsa alla competizione ci hanno resi molto più aridi, quindi dobbiamo tornare a quello che è il senso umano delle cose, il senso umano della nostra connessione di noi tutti e tornando a quello capire che non siamo tanti puntini separati, ma siamo tanti puntini separati che creano una comunità, un gruppo di persone. E quel gruppo di persone ha un potere che può essere sfruttato e messo a frutto.