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Il ruolo delle aziende per la transizione – intervista a Fabrizio Gavelli

Le aziende, grazie alla loro capacità di mobilitare persone, risorse e capitali, possono contribuire enormemente alla risoluzione dei problemi sociali e ambientali del nostro tempo.
In occasione di ImagiNATION, serie di eventi che NATIVA organizza per immaginare collettivamente un sistema Paese sostenibile verso cui tendere, abbiamo intervistato Fabrizio Gavelli, Amministratore Delegato di Danone Company Italia e Grecia, per parlare proprio del ruolo sociale e politico delle aziende in una società che affronta grandi sfide, a partire da quelle di sostenibilità.

Danone è un’azienda molto attiva, soprattutto grazie alle iniziative da te promosse negli ultimi quattro anni in Danone Italia, che si può dire stia facendo un po’ scuola nel mondo. Ma qual è stato il tuo ‘click’ personale? Da dove nasce questa tua motivazione a essere un CEO “non convenzionale”?

Buongiorno a tutte e tutti!
Tra i vari percorsi di coaching che ho seguito, ce n’è uno che mi ha colpito particolarmente e che proponeva un esercizio che suggerirei di fare a tutti: trovare i propri “roots, values, driver e dreams”. Ovvero capire quali sono le proprie radici, perché da esse nascono i valori di ciascuno, e solo a partire da esse è possibile capire cosa ci guida e verso quali sogni tendiamo. Le mie radici affondano a Forlì, in un paese di provincia che ha dato forma alla mia semplicità, alla mia spontaneità e alla mia volontà di includere all’interno di quello che faccio il maggior numero di persone possibili, anche provenienti da contesti sociali differenti. È stato naturale per me portare nel business questo approccio. Abbiamo visto che, anche quest’anno, l’Edelman Trust Barometer, ha confermato che le persone cercano competenza ed etica, e abbiamo visto aumentare in questo senso la distanza tra governi e aziende, che dal Covid in poi sono migliorate sempre di più in termini di competenza e di etica guadagnando la fiducia delle persone, e quindi un’aspettativa altissima anche su un piano politico.

Cosa può voler dire per un’azienda giocare un ruolo politico in una società come la nostra, che affronta sfide come quella climatica? 

Le aziende e i business fanno politica. Philip Kotler in Brand Activism cita l’autrice premio Nobel Olga Tokarczuk che afferma: “Per me si fa politica in ogni momento della vita. Quello che mangiamo è politica, come trattiamo gli animali è politica, la natura è politica, anche i nostri vestiti lo sono, perfino la spazzatura è politica.” Quindi anche il business è politico ed è inutile affermare il contrario. E se è politico significa che può impattare su quello che le persone pensano, su quello che le persone scelgono: quando vado al supermercato, nel momento in cui scelgo un prodotto, compio un atto politico. Dobbiamo esserne consapevoli noi cittadini e cittadine, ma ancora di più deve esserne consapevole l’azienda che propone quel prodotto. Nelle nostre scelte riguardo all’impatto, partiamo dalla convinzione che la performance senza la sostenibilità non ha futuro, ma aggiungo che la sostenibilità senza la performance non ha impatto. L’esempio che faccio sempre è quello del trattore: se ho un’azienda agricola e lascio il mio trattore dentro al capannone, rispetto alla sostenibilità sono perfetto, ma non ho nessun impatto economico. 

Quindi le aziende possono farsi carico dei problemi sociali e ambientali di questo mondo facendo quello che sanno fare meglio, cioè generare profitti. In Italia si spendono quasi 10 miliardi di euro in pubblicità, una cifra stratosferica e in crescita ogni anno. Come vengono spesi questi 10 miliardi di euro? Perché non vengono spesi per cercare di trovare soluzioni a problemi sociali e ambientali? Questa è una domanda che ci ha fatto molto meditare negli ultimi tempi.
Pensiamo a questa reazione quasi avversa alla transizione ecologica. Se immaginiamo la nostra società come un organismo, vediamo che tutte le volte che interviene un cambiamento la prima reazione dell’organismo è protettiva, come se il cambiamento fosse un aggressore esterno. Ed è quello che stanno facendo tante forze politiche, tante frange di opinione pubblica, tante aziende. Ma ci sono anche casi, come il nostro, di aziende che invece scelgono di fare la differenza indipendentemente dalle spinte normative, solo perché è giusto, assumendosi il proprio ruolo politico.

In Danone avete chiamato il modello che adottate ‘megafono sociale’: ci racconti un po’ come funziona, qual è stato il pensiero che ti ha fatto arrivare a questo tipo di scelta strategica?

Le ispirazioni che hanno fatto nascere questo modello sono tantissime. Una sicuramente è la teoria economica della catena di valore di Porter. “Io voglio creare valore, però oggi cosa vuol dire creare valore? Per chi? E come si può fare?”
Un’altra grande ispirazione è stato il nostro fondatore Antoine Riboud, che nel 1972 ( lo stesso anno in cui Milton Friedman affermava alla scuola di Chicago che per le aziende fosse necessario solo fare profitto), affermava che le aziende devono perseguire anche obiettivi sociali.
Noi abbiamo 16 brand in azienda, partiamo dalle loro caratteristiche identitarie per arrivare ad agire, facendo leva su esse, su uno specifico problema del nostro Paese. E non creando awareness, ma agendo, coinvolgendo ambasciatori, comunità e poi misurando il tutto.
Ho tanti esempi, ne faccio due. Il primo è quello di PiazzAut e Danette. Io mi sono avvicinato quasi casualmente a Nico Acampora, fondatore di PizzAut, l’unica pizzeria al mondo gestita da ragazzi autistici, e abbiamo deciso di unire la sua missione con Danette, il brand che porta gioia per antonomasia, perché è buono, troppo buono, come dicevano Ciro Ferrara e Pippo Inzaghi vent’anni fa. Il nostro jingle è stato riscritto per PizzAut, creando la campagna PizzAut, troppo buona! insieme a Elio di Elio e le Storie tese, che ha un figlio autistico e dunque sente e conosce la causa in modo profondo. La campagna ha raggiunto 44 milioni di contatti lordi, ma soprattutto ha portato le persone dentro la pizzeria: ora servono due mesi per prenotare. Naturalmente l’obiettivo è aprire PizzAut in tutte le province italiane. Questo è il punto, mettere a disposizione i nostri mezzi per aiutare chi ha uno scopo sociale. Con Danacol abbiamo fatto qualcosa di simile. Danacol è un prodotto che riduce il colesterolo e attraverso di esso abbiamo deciso di aiutare ad aumentare la consapevolezza sulla prevenzione delle malattie cardiovascolari, che in Italia sono la prima causa di morte. In questo caso abbiamo realizzato una campagna con il Policlinico Gemelli di Roma.

Domanda di rito. Quale legacy ti immagini di lasciare? Tu personalmente o la tua generazione?

Proverò a circoscrivere il più possibile. Io vorrei che quello che sto facendo restasse. Danone spende l’8-9% del proprio fatturato in pubblicità, una cifra pazzesca, e ci sono aziende che spendono anche di più. La legacy che vorrei lasciare è quella di indirizzare le risorse finanziarie, umane, creative, strategiche e innovative in una direzione positiva dal punto di vista ambientale, sociale ed etico. E farlo facendo profitti, cioè rendendo sostenibile questa scelta. Se l’opinione pubblica riuscisse ad abbracciare questo pensiero, secondo me ci potrebbero essere novità molto interessanti per il futuro.

 

Le aziende, grazie alla loro capacità di mobilitare persone, risorse e capitali, possono farsi carico dei problemi sociali e ambientali del nostro tempo e impegnarsi a risolverli, non solo facendo profitti, ma indirizzandoli in una nuova direzione: quella della sostenibilità.
In occasione di ImagiNATION, serie di eventi che NATIVA organizza per immaginare collettivamente un sistema Paese sostenibile verso cui tendere, abbiamo intervistato Fabrizio Gavelli, Amministratore Delegato di Danone Company Italia e Grecia, per parlare di come le aziende possono giocare un ruolo sociale e politico.
Anche il business è politico ed è inutile affermare il contrario. E se è politico significa che può impattare su quello che le persone pensano, su quello che le persone scelgono: quando vado al supermercato, nel momento in cui scelgo un prodotto, compio un atto politico Dobbiamo esserne consapevoli noi, ma ancora di più deve esserne consapevole l’azienda.
Noi abbiamo 16 brand in azienda, partiamo dalle loro caratteristiche identitarie per arrivare a risolvere, facendo leva su esse, uno specifico problema del nostro Paese. E non creando awareness, ma agendo, coinvolgendo ambasciatori, comunità e poi misurando il tutto.
La legacy che vorrei lasciare è quella di indirizzare le risorse finanziarie, umane, creative, strategiche e innovative in una direzione positiva dal punto di vista ambientale, sociale ed etico. E farlo facendo profitti, cioè rendendo sostenibile questa scelta.