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Elezioni europee e sostenibilità – Intervista a Ferdinando Cotugno

Le elezioni europee di giugno saranno un momento chiave per le politiche dell’Unione Europea in ottica di sostenibilità. Il loro risultato potrebbe confermare l’impegno preso dell’Europa con il Green Deal, oppure, più probabilmente, segnare un cambio di direzione rispetto agli impegni presi e che sono stati un esempio a livello globale.

In occasione di ImagiNATION, serie di eventi che NATIVA organizza per immaginare collettivamente un sistema Paese sostenibile verso cui tendere, abbiamo intervistato Ferdinando Cotugno, Climate Reporter di Domani, per parlare proprio delle elezioni e di come possiamo raccontare la transizione e coinvolgere sempre più persone, partendo proprio dalla loro umanità.

Ciao Ferdinando! Cominciamo con una domanda per rompere il ghiaccio. Tu sei un giornalista specializzato in questioni ambientali, anche se finisci per spaziare tra una vasta gamma di tematiche sociali ed economiche. Cosa ti ha spinto a specializzarti in questo senso e chi o cosa ha influenzato la tua scelta?

Buongiorno a tutte e tutti!
I percorsi dei giornalisti sono spesso complessi e non lineari. Io vengo da una famiglia anti-ambientalista, quindi quello di avvicinamento alla questione ambientale è stato prima ancora un percorso di scoperta e ricerca personale. Nel mio caso, diversi elementi e percezioni del mondo si sono congiunti. Nel 2018 c’è stata la tempesta Vaia, che rappresenta uno degli episodi più significativi della crisi climatica in Italia, quello stesso anno ho compiuto un viaggio nell’Artico e l’anno successivo i giovani hanno cominciato a scendere in piazza: lì la mia inquietudine ha preso quella direzione in modo irrevocabile e si è consolidata in me la decisione di cercare e raccontare questo genere di storie. Da allora ho visto un cambiamento radicale nelle nostre menti e percezioni politiche. Questi tre elementi si sono allineati, portandomi a concentrarmi su questo specifico settore.

Molto interessante, soprattutto considerando che in Italia non ci sono molti giornalisti che lavorano verticalmente su questo tema. Tu collabori con Domani, in un certo senso sei un esperto di futuro. Quali pensi potranno essere i grandi temi in cima alla lista dell’Unione Europea nei prossimi cinque anni?

È difficilissimo dirlo, perché non sappiamo cosa succederà fra pochi mesi. Sicuramente l’Europa è di fronte a una grande sfida, innanzitutto con se stessa: deve capire se vuole essere un museo, se vuole essere la periferia del mondo, o se ha ancora qualcosa da raccontare. In questi anni ha provato a svolgere un ruolo di leadership con il Green Deal, attivando dei processi che erano anche al di fuori dei propri confini, con delle policy specifiche, ma anche con un percorso di attivazione politica: ha provato a diventare un modello. E ovviamente c’è un tema di serietà, nel senso che non possiamo provare ad essere un modello per 5 anni e poi con l’inizio di un nuovo ciclo politico cambiare completamente strategia. Se questa coerenza dovesse venire a mancare potrebbe esserci giustamente rinfacciato.
Per vincere la sfida dobbiamo dimostrare che questo impegno a diventare il primo continente a neutralità climatica entro il 2050 era davvero alla nostra portata, pur trattandosi di un impegno straordinariamente ambizioso – ricordo che Ursula von der Leyen giustamente lo paragonò allo sbarco sulla luna, e credo sia ancora di più. Per farlo non possiamo ragionare su un arco di tempo di cinque anni, ma di trenta, quindi su scala politicamente intergenerazionale. E non solo: dobbiamo dimostrare che questa prospettiva è desiderabile, che crea consenso e prosperità condivisa.
Solo così potremo rimanere rilevanti. Noi abbiamo ancora la percezione di essere il centro del mondo, ma se usciamo dall’Europa ci rendiamo conto che l’Europa non lo è più. É però una posizione che può riconquistare, e forse quella della transizione è l’ultima leva che ci è rimasta per farlo e non essere lasciati indietro.

Tu fai il giornalista, quindi ti occupi anche di comunicazione. A volte hai scritto che le conoscenze sui cambiamenti climatici fanno fatica ad arrivare alle persone, sia a quelle che sono interessate sia a quelle che non vorrebbero ascoltare. Secondo te c’è qualcosa da migliorare nel modo in cui raccontiamo le sfide che abbiamo davanti?

Non c’è una sola cosa che può essere migliorata, deve essere migliorato tutto. Noi siamo alla ricerca di un immaginario completamente nuovo, perché la storia che abbiamo raccontato finora non è abbastanza buona e questo ce lo dobbiamo dire apertamente. Il rigetto dell’ambientalismo è la storia del 2024 e tra poche settimane saranno cinque anni da quando i Fridays For Future scendevano in piazza. Cos’è successo? Quel movimento ha avuto grandissime vittorie, culturali più che politiche, ha cambiato la nostra percezione del mondo, ma ora stiamo assistendo a un rigetto di quel fenomeno. E questo significa che quella storia non era abbastanza buona. Mancavano troppi pezzi, mancavano troppe persone: un aspetto che ci siamo dimenticati è che le persone per partecipare politicamente a un processo così grande, così ambizioso, così radicale, hanno bisogno di sentirsi viste. Spesso, invece, le persone non si sentono viste e sentono di subire una comunicazione unidirezionale: “hai fatto, hai rovinato tutto, devi fare, devi cambiare”. Noi giornalisti, comunicatori, aziende, istituzioni, dobbiamo rendere gli interlocutori visibili e far capire che le loro ragioni sono viste e sono parte del processo, perché è chiaro che devono esserlo. Ma questa cosa va detta ad alta voce, altrimenti le persone avranno più paura dei cambiamenti che dobbiamo attuare contro i cambiamenti climatici che del cambiamento climatico stesso.
Per avere un coinvolgimento più ampio abbiamo quindi bisogno di una costruzione del futuro, abbiamo bisogno di capire non solo da cosa ci stiamo allontanando, ma verso cosa stiamo andando. Noi diciamo sempre che dobbiamo uscire dalle bolle, però è anche questo un discorso dentro la bolla, e quindi la grande sfida che abbiamo di fronte è una sfida di inclusione politica, di comunicazione e di ristrutturazione cognitiva. E il problema è che per certi versi abbiamo solo tre mesi per vincerla, non trent’anni, perché si vota a giugno e sarà l’ultima elezione europea che ci eravamo dati per diminuire le emissioni, quindi c’è di mezzo non solo la legacy del Green Deal, dei Fridays For Future, ma la riuscita della transizione ecologica in quanto tale.
Se perdiamo questa finestra di opportunità abbiamo perso tutto, perché se l’Europa inizia a smantellare quanto ha fatto fin qui, ci sarà una reazione a catena in tutto il mondo. Secondo me non abbiamo ancora sottolineato abbastanza come sistema Italia, come sistema Europa, quanto c’è in ballo in queste elezioni europee.

Parlando sempre di grandi sfide, sono passati quattro mesi dalla COP28 e dalla sottoscrizione dell’accordo di transitioning away di cui si è tanto scritto. Hai visto se c’è stato qualche effetto concreto? E che cosa ti aspetti nei prossimi mesi e anni rispetto a questo momento?

Un effetto concreto c’è stato ed è stato molto grande. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno fermato il più grande progetto di espansione di terminal di rigassificazione in Louisiana, e questo rappresenta a tutti gli effetti il cosiddetto “transition away”. Stava infatti per essere realizzato un progetto che avrebbe raddoppiato la capacità di gassificazione degli Stati Uniti, che sono peraltro il nostro principale fornitore di GNL, e questa decisione è stata fermata. Si è trattato di una decisione politica. Direi quindi che gli effetti si vedranno su lunga scala, ma quello che è successo negli USA dopo la COP è esattamente quello che è stato scritto nell’accordo finale.
La questione fondamentale della COP29 e delle prossime sarà la finanza perché la domanda da porsi non è più se procedere o meno con la transizione, ma in che tempi realizzarla. E i tempi sono un fattore fondamentale della finanza: tanti soldi corrispondono a tempi più brevi, pochi soldi a tempi più lunghi. La metà dei Paesi produttori di combustibili fossili sono oggi Paesi in via di sviluppo e non dobbiamo immaginare che tra di essi ci siano solo l’Arabia Saudita o il Qatar, ma anche Paesi come l’Iraq. Se, ad esempio, venisse chiesto all’Iraq di attuare immediatamente la transizione, facendogli così perdere il 90% del proprio export, rappresentato proprio dal petrolio, cosa potrebbe succedere? Probabilmente si troverebbe metà della popolazione sotto la soglia di povertà, peraltro per colpa dell’Occidente.
Di conseguenza, se non si mettono a disposizione leve finanziarie enormi-pubbliche e private- e modelli innovativi come le just transition partnership (un esempio sono quelle in campo con l’indonesia e con il Vietnam), non si potrà realizzare nessuna transazione.

Passiamo ora a un altro tema rilevante: la collaborazione e il fare rete. Noi, come NATIVA, abbiamo realizzato un’iniziativa – chiamata CO2alizione – che riunisce 89 imprese che hanno sottoscritto, all’interno del proprio statuto, l’impegno a rispettare gli obiettivi di neutralità dell’Unione Europea proprio per promuovere questa idea di fare sistema e far sì che le aziende possano collaborare tra loro. Ampliando anche il panorama, quanto “fare rete” è importante per affrontare la transizione, parlando anche di reti che coinvolgano istituzioni, cittadini, imprese che esistono già? C’è qualcosa che si potrebbe fare di più in questo senso?

Si tratta di un tema fondamentale perché la collaborazione e il fare rete sono la base dell’azione politica. Nessuno ha infatti gli strumenti politici, economici e umani per affrontare questo cambiamento da solo: nessun individuo, nessun partito, nessuna azienda, nessuna realtà. E questo deve spingerci verso un mondo post competizione, sradicando il “totem della competizione” dal suo ruolo di meccanismo di funzionamento della nostra società. Perché la competizione è una corsa al ribasso e in questo momento è necessario avviare un’epoca di collaborazione.
Ci sono però certamente esperienze positive, tra cui gli Stati Generali del Clima, i quali mettono a fattore i singoli pezzi e le singole realtà. Partecipano infatti tante realtà diverse tra loro e ognuna porta un pezzo.
Il grande problema è che sappiamo da cosa ci stiamo allontanando- dal mondo fossile, lo status quo- ma non sappiamo cosa stiamo costruendo, è un’informazione che non abbiamo e quindi la collaborazione ci permette di visualizzarla. Se dico “immagina un mondo post transizione”, cosa possiamo saperne? Certo, ognuno deve avere la propria idea, ma se uniamo le mie idee e quelle di un’altra persona, avremo due idee; se uniamo quelle di tutte le persone all’interno di questa stanza, avremo sessanta idee e se arriviamo ad unire quelle tutti i soggetti degli Stati Generali avremo altre 200 idee e pian piano il disegno si allargherà.

Chiudiamo con una domanda che sembra banale, ma in realtà è forse la più difficile tra quelle che poniamo: quale vorresti che fosse l’eredità della generazione a cui tu appartieni?

Difficilissima, perché io sono nato nell’82 quindi sono quello che si potrebbe definire “millennial geriatrico”, quella generazione in bancarotta politica, quella del G8, quella che appena ha cominciato aveva già perso. Però questo fa di noi i più vecchi di tutti quelli a cui lo status quo economico, sociale, industriale, politico non aveva più niente da dare. Siamo stati i primi ad aver percepito questa rottura del mondo e dunque anche se probabilmente avremo meno accesso al potere, per esempio della generazione Z, possiamo dare il nostro contributo a questa diffusa protesta esistenziale con lo smantellamento necessario alla ricostruzione. E tra tutto quello che possiamo smantellare, una delle prime cose è l’ambientalismo. L’ambientalismo è proprio un concetto che non ci serve più. Ci è servito per portarci fino a questo punto, è stato un utile strumento comunicativo, ma non ci serve più. Nessuno ha più bisogno di parlare di ambiente, nessuno ha più bisogno di essere percepito come un ambientalista, cioè un radicale del non umano. Perché questa è una storia umana, della gente, dei popoli, delle generazioni, e dobbiamo imparare a raccontarla come tale. E per farlo momenti di immaginazione collettiva come questo sono fondamentali. Grazie.

Le elezioni europee di giugno saranno un momento chiave per le politiche dell’Unione Europea in ottica di sostenibilità. Il loro risultato potrebbe confermare l’impegno preso dell’Europa con il Green Deal, oppure, più probabilmente, segnare un cambio di direzione rispetto agli impegni presi.
In occasione di ImagiNATION, serie di eventi che NATIVA organizza per immaginare collettivamente un sistema Paese sostenibile verso cui tendere, abbiamo intervistato Ferdinando Cotugno, Climate Report di Domani, per parlare proprio delle elezioni e di come possiamo raccontare la transizione e coinvolgere sempre più persone, partendo dal concetto di umano.
L'Europa è di fronte a una grande sfida: deve capire se vuole essere un museo, se vuole essere la periferia del mondo, o se ha ancora qualcosa da raccontare. Noi abbiamo ancora la percezione di essere il centro del mondo, ma se usciamo dall'Europa ci rendiamo conto che l'Europa non lo è più.É però una posizione che può riconquistare.
Il rigetto dell'ambientalismo è la storia del 2024 e tra poche settimane saranno cinque anni da quando i Fridays For Future scendevano in piazza. Cos’è successo? Quel movimento ha avuto grandissime vittorie, culturali più che politiche, ha cambiato la nostra percezione del mondo, ma ora stiamo assistendo a un rigetto di quel fenomeno.
E questo significa che quella storia non era abbastanza buona. Mancavano troppi pezzi, mancavano troppe persone: un aspetto che ci siamo dimenticati è che le persone per partecipare politicamente a un processo così grande, così ambizioso, così radicale, hanno bisogno di sentirsi viste.
La grande sfida che abbiamo di fronte è una sfida di inclusione politica, di comunicazione e di ristrutturazione cognitiva. E il problema è che per certi versi abbiamo solo tre mesi per vincerla, non trent’anni, perché si vota a giugno.
La collaborazione e il fare rete sono la base dell’azione politica. Nessuno ha infatti gli strumenti politici, economici e umani per affrontare questo cambiamento da solo: nessun individuo, nessun partito, nessuna azienda, nessuna realtà. E questo deve spingerci verso un mondo post competizione.
Siamo stati i primi ad aver percepito questa rottura del mondo e dunque anche se probabilmente avremo meno accesso al potere, per esempio della generazione Z, possiamo dare il nostro contributo a questa diffusa protesta esistenziale con lo smantellamento necessario alla ricostruzione.